lunedì 30 novembre 2015

Previsioni sul franco svizzero per il 2016

Torna in auge questa settimana presso gli investitori valutari il franco svizzero, che ha ceduto i minimi annuali contro il dollaro Usa. Il dollaro/ franco ha infatti continuato la sua corsa rialzista anche in questa ottava (dopo aver raggiunto e superato la parità lo scorso 6 novembre), andando a infrangere quota 1,03.

Nel dettaglio, durante la seduta di venerdì, il cambio ha rotto al rialzo un’importante resistenza a quota 1,0250 franchi accelerando improvvisamente di più di mezza figura, con massimo relativo a 1,0329 franchi. Il movimento ha sorpreso non poco gli operatori, che mai avrebbero pensato di affrontare e rompere i precedenti massimi al primo tentativo. La testimonianza di questo si è avuta proprio dall’ampiezza del movimento dopo la rottura, che sta a significare la «presa» di molti stop loss.

Le ragioni che stanno alla base del movimento rialzista del dollaro americano sul franco svizzero sono sicuramente da imputare alle diverse strategie di politica monetaria tra le banche centrali. Se da una parte è praticamente scontato un rialzo dei tassi d’interesse, con la decisione della Federal Reserve il prossimo 16 dicembre dall’altra, gli operatori, temono un intervento della banca centrale svizzera a favore del rafforzamento della propria moneta contro l’euro, per il possibile allargamento del Quantitative easing da parte della Bce. Attualmente le quotazioni dell’euro/franco gravitano a ridosso di 1,09 franchi, che risulta essere non solo un buon livello di equilibrio ma è anche nella parte superiore del range 1,05/1,10 franchi che si è prefissato il governatore della Snb, Thomas Jordan.

Tuttavia, come ci ha insegnato il forex negli ultimi anni, gli scenari possono variare nell’arco di pochissimo tempo con gli interventi straordinari delle banche centrali.

Un endorsement per un intervento della Banca Centrale Svizzera è arrivato dal keynesiano Joseph Stiglitz che, a margine di un’intervista rilasciata durante il Lugano Fund Forum, ha esortato le autorità monetarie a reintrodurre la soglia minima di cambio che era in vigore fino allo scorso gennaio. L’ex capo economista della Banca Mondiale ha giudicato corretta l’adozione dei tassi negativi, ma li considera insufficienti, per cui ha invitato la banca centrale elvetica a intervenire di nuovo sul mercato dei cambi.

«È scorretto aspettarsi che l’economia reale sopporti le conseguenze dei movimenti sui mercati dei capitali», ha detto Stiglitz, «la soglia minima non era una distorsione del mercato, ma al contrario la correzione di una distorsione dovuta ai flussi di capitali. Per l’economia elvetica sarebbe però stato meglio fissare il cambio in rapporto a un paniere di divise dei principali partner commerciali». Al netto di possibili interventi da parte della Schweizerische National-Bank, un’operazione interessante sul cambio dollaro/franco sarebbe l’attesa di un ritorno su quota 1,0250 franchi per poi investire lunghi sul cambio. Strategia da sconsigliare per chi vuole fare sogni tranquilli perché in caso d’intervento della Snb non c’è stop che tenga, come hanno avuto modo d’imparare sulla propria pelle molti investitori rimasti scottati dalla mossa (a tradimento) di gennaio scorso.

sabato 21 novembre 2015

Leva e margine nel Forex

La leva e il margine sono importanti poiché. se usati bene, sono validi alleati, mentre se usati impropriamente possono portare a perdite non previste. Leva e margine si riferiscono allo stesso concetto, solo mostrano un punto di vista diverso. Quando un trader lavora a leva e apre una posizione, viene richiesto di mettere a garanzia una frazione di quella posizione a fronte dell’operazione.

Questo ammontare si chiama tecnicamente «margine richiesto». Il margine richiesto è spesso definito deposito di buona fede perché il trader ritorna in possesso di tutto il margine quando è chiusa l’operazione. Da questo si deduce che i depositi di margine sono richiesti per fare trading, non sono un costo. Un grande beneficio del mercato Forex è che offre alcuni tra i minori requisiti di margine tra tutti gli strumenti finanziari disponibili.

Questo significa che il potere d’acquisto è molto più elevato rispetto a un conto mancante della possibilità di utilizzare la leva. Vediamo ora un esempio di leva e margine. Supponiamo che un trader apra una posizione da 10k su EurUsd. Il trader non deve fisicamente disporre di 10.000 euro come garanzia, ma in base a come è impostata la leva della controparte con la quale opera, possono bastare 50 o 100 euro. Con un rapido calcolo possiamo stabilire che la leva dei due esempi è 200:1 o margine 0,5% (50 = 0,5% di 10.000) e 100:1 o margine 1% (100 = 1% di 10.000).

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mercoledì 11 novembre 2015

Cambio euro dollaro verso la parità? Quando?

Il cambio Eur/usd sarà fortemente influenzato dalle prossime decisioni del presidente della Bce, Mario Draghi, e della sua collega americana, Janet Yellen. Per questo questa coppia rimane al centro dei traders del Forex anche in questo periodo (operaci tramite Etx , il broker che offre le migliori condizioni di spread su questa coppia di valute).

Per prevedere le prossime decisioni dei due banchieri centrali (il 3 dicembre tocca alla Bce, il 16 la palla passa alla Federal Reserve) bisogna tenere presenti non soltanto i consueti dati macro ma anche i nuovi equilibri globali che si stanno profilando a livello geopolitico. In questa partita ci sono due spettatori, uno attivo, la Cina, e uno passivo, gli altri Paesi emergenti.

Questi ultimi, nel caso in cui la Fed il mese prossimo dovesse aumentare il costo del denaro per la prima volta dal giugno del 2006, mettendo fine alla politica dei tassi zero avviata nel dicembre 2008, rischierebbero di soccombere sotto il peso del dollaro forte, visto che sono molto indebitati in questa valuta. Non per niente, a settembre la Yellen aveva giustificato il mancato rialzo con i rischi legati a questi Paesi. In quell’occasione aveva citato in particolare la Cina, che tuttavia, dalla sua posizione di seconda economia mondiale, ha la capacità di prendere adeguate contromisure.

Venerdì 6 novembre sono stati diffusi gli attesissimi dati sull’occupazione Usa, che sono andati meglio del previsto. Tra gli investitori le probabilità di un aumento dei tassi il mese prossimo sono subito salite al 70% dal 58% del giorno precedente. E in effetti, a prima vista, i numeri sono stati ottimi: a ottobre i posti di lavoro sono saliti di 271 mila unità, ben oltre i previsti 182 mila, mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, al livello più basso dall’aprile 2008, quando non era ancora scoppiata la bomba Lehman Brothers. Anche i salari sono aumentati più delle attese, del 2,5% su base annua.

Di conseguenza il dollaro si è rafforzato toccando i massimi da dicembre 2002 sull’euro, sceso fino a 1,0708. La moneta unica sembra quindi avviata verso la parità con il dollaro. Obiettivo mai esplicitato dalla Bce, ma in cuor suo auspicato. Altrimenti non si capirebbe perché Draghi abbia creato le premesse per un rafforzamento del Qe il mese prossimo, magari accompagnato da un taglio dei tassi sui depositi dal -0,20 al -0,30%.

Le aspettative al riguardo sono tali che se l’istituto di Francoforte dovesse deluderle con una minima variazione del piano di acquisto di bond, che ora procede al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, la delusione dei mercati sarebbe grande. Ma se Draghi pensasse che la Yellen è decisa ad aumentare i tassi due settimane dopo, allora potrebbe essere tentato di non toccare il Qe, limitandosi a rilasciare dichiarazioni da colomba del genere «siamo pronti a fare di più qualora fosse necessario».

Questo perché il rialzo dei tassi Fed porterebbe comunque l’euro verso la parità. Se il rialzo della Yellen fosse preceduto dal lancio di un Qe plus della Bce, l’euro rischierebbe di svalutarsi troppo, scendendo sotto la parità. O meglio, il dollaro si rafforzerebbe al punto da mettere in difficoltà i Paesi emergenti, ostacolando la ripresa Usa e aumentando inoltre i rischi di deflazione.

La soluzione ottimale sarebbe: lancio del Qe plus della Bce mentre la Fed rimanda ancora una volta il rialzo dei tassi. Ma c’è il rischio che i dati migliori delle attese incoraggino i sostenitori dell’aumento del costo denaro, convinti, tra l’altro, che, questo aiuti a mantenere la credibilità della Fed. Di aumento dei tassi entro la fine dell’anno si è infatti parlato troppo, rinunciarvi sarebbe uno smacco. Stesso discorso per il Qe plus della Bce. Insomma, c’è il rischio che per mantenere la parola data, la Fed e la Bce facciano un errore dietro l’altro. In ogni caso, l’euro sembra destinato alla parità con il dollaro, a meno che Draghi rinunci a rafforzare il Qe e la Fed rinvii ancora una volta il rialzo dei tassi.

Questi sono ragionamenti sul breve termine, purtroppo gli unici che interessano agli investitori. Ampliando l’orizzonte, a favore di un rialzo dei tassi da parte della Fed c’è il fatto che sette anni di tassi zero rischiano di provocare danni irreparabili. Come hanno sottolineato l’economista Paolo Savona e il gestore di Janus Capital, Bill Gross, rendimenti nulli o addirittura negativi sugli investimenti in titoli di Stato provocano l’eutanasia del risparmiatore e rischiano di far saltare il sistema pensionistico. Alla lunga la politica dei tassi rasoterra, appiattendo la curva dei rendimenti, toglie qualsiasi incentivo a investire nel lungo termine.

Le prospettive di breve e lungo termine devono poi essere collocate entro un quadro più ampio, che comprende i rapporti geopolitici. Le relazioni tra gli Usa e l’Europa trovano la loro metafora nelle politiche monetarie della Fed e della Bce. La Yellen e Draghi si comportano come una coppia d’altri tempi: anche quando i due governatori annunciano politiche monetarie a prima vista opposte, rappresentano strumenti addirittura complementari. Fanno parte di un disegno unitario, come sono inseparabili le economie delle due sponde dell’Atlantico. Questo anche volendo trascurare, se non fossero ancora più forti, i legami politici, militari e strategici rappresentati dal Trattato del Nord Atlantico.

Ed ecco che cosa dovrebbe succedere per arrivare al migliore risultato possibile: se il mese prossimo la Yellen aumenterà i tassi, il cambio tra euro e dollaro nei 12 mesi successivi dovrebbe scendere a 0,95 dollari. Il rafforzamento del Qe della Bce servirebbe invece a far uscire l’Eurozona dalla morsa della deflazione: a ottobre l’indice è stato pari a zero, distante anni luce dall’obiettivo del 2%. L’unico modo per aumentare i prezzi interni nell’area dell’euro, considerando gli stringenti vincoli posti ai deficit pubblici e le politiche di severità salariale volte a migliorare la competitività esterna, è rappresentato dalla svalutazione del cambio e dal conseguente aumento dei prezzi all’importazione. I tassi negativi sui depositi presso la Bce e la immissione di liquidità sono gli strumenti necessari per sollecitare il deflusso di capitali dall’Eurozona e la conseguente svalutazione. L’effetto delle dichiarazioni di Draghi sul cambio dell’euro è stato istantaneo: giovedì 22 ottobre, nel corso della conferenza stampa in cui annunciava la possibile estensione del Qe a dicembre, il cross sul dollaro è passato da 1,132 ad 1,117.

C’è poi una seconda ragione per svalutare l’euro: sulla base dell’impostazione tedesca, una sana crescita economica dell’Eurozona deve fondarsi sulla capacità di competere sui mercati internazionali, e l’assorbimento della disoccupazione deve derivare dalla domanda estera. Purtroppo, per quanto riguarda l’economia dell’Eurozona, il rallentamento della crescita cinese, la crisi dei Paesi emergenti e la contrazione ai minimi dei prezzi delle materie prime e del petrolio hanno vanificato gli effetti positivi attesi dalla svalutazione dell’euro: cioè importare inflazione e sostenere l’export. Di converso, per quanto riguarda gli Usa, da più di un anno la Cina non reinveste più i suoi attivi commerciali in titoli del debito pubblico statunitense, e anzi più volte è parsa agire per venderli. Se dunque già da parecchi trimestri molti capitali hanno lasciato l’area dell’euro per investire in dollari, questa tendenza si rafforzerà quando i tassi americani saliranno, come è dichiarata intenzione della Federal Reserve.

Occorre dunque insistere, con una strategia sinergica: sia con il rafforzamento del Qe da parte della Bce sia con l’innalzamento dei tassi da parte della Fed. L’immissione di altra liquidità in euro e il contestuale aumento dei tassi sul dollaro agevoleranno contestualmente la svalutazione dell’euro e il carry trade (l’investimento a leva) verso l’area del dollaro. Tutto ciò è coerente con un disegno in cui l’Europa subentra alla Cina nel finanziamento del debito pubblico americano e del suo disavanzo commerciale, e magari di tanti crediti in dollari nei confronti dei Paesi emergenti. Questo mentre la svalutazione dell’euro avvantaggerebbe l’export dell’Eurozona e il conseguente surplus verrebbe reinvestito negli Usa: l’interdipendenza tra le due aree economiche diverrebbe ancora più forte, divenendo il miglior viatico per l’approvazione del Trattato Transatlantico per la liberalizzazione dei servizi e la protezione degli investimenti. In questi termini, la penalizzazione di cui l’economia americana soffrirebbe nei confronti dell’industria europea sarebbe ampiamente compensata dall’apertura alla concorrenza del settore dei servizi, che rappresentano un punto di forza dell’economia statunitense e più in generale anglosassone.

Questo schema sarebbe subito vantaggioso per entrambi, Usa ed Eurozona, e soprattutto ben bilanciato in prospettiva. Sembra tutto ben congegnato, se non ci fosse l’incognita cinese: se lo yuan si allineasse all’euro, svalutandosi a sua volta sul dollaro, i giochi si riaprirebbero. Gli sforzi dell’Europa volti a recuperare competitività deflazionando i salari e svalutando sarebbero vanificati.
Gli Usa, a loro volta, tornerebbero ad avere un disavanzo commerciale difficilmente sostenibile e forse anche il dollaro sarebbe compromesso nella sua solidità. Le banche europee si troverebbero di fronte al rischio di accollarsi le perdite di una nuova bolla del credito americano. Pechino ha riserve valutarie rilevanti, si sente circondata per via dell’Accordo Trans Pacifico, e ha già reagito con la decisione di abrogare la legge sul figlio unico per rilanciare la sua economia su basi sane, quelle demografiche. La partita è aperta, nessuno ha mai in mano tutte le carte del mazzo.

Cosa fare in sintesi

Monitora quindi le decisioni delle Banche Centrali pronto a entrare long o short sul cambio. Posizione attuale: short. Utilizza Etx per minimizzare i costi di negoziazione.

lunedì 9 novembre 2015

Euro Dollaro previsioni novembre 2015

Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, questa settimana è riuscito con il minimo sforzo ad alleviare le pressioni rialzista dell’euro/dollaro. Come nel settembre di due anni fa, quando bastarono le parole «l’euro deve tenere, e terrà» per placare immediatamente le speculazioni, anche questa volta il presidente non ha avuto bisogno che di una dichiarazione per raffreddare il corso dell’euro/dollaro.

Nello specifico, il Mario Draghi ha detto che il livello di espansione monetaria assicurata dalla Bce dovrà essere riesaminato in dicembre da un direttivo «che vuole e può» utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per far fronte ad un’inflazione che nel breve termine rimarrà molto bassa. Insomma, Draghi ha messo l’elmetto ed è pronto ad agire nuovamente ma per ora ha vinto con il solo effetto annuncio, un po’ come faceva a suo tempo la Banca centrale svizzera (prima di perdere totalmente la credibilità con il papocchio dell’eliminazione del floor di 1,20 franchi).

Fra le opzioni che il presidente della Bce considera come attuabili in tempi stretti c’è un’estensione del Quantitative easing (che attualmente dovrebbe interrompersi nel settembre del 2016) e un ritocco al ribasso del tasso sui depositi bancari. In scia alle dichiarazioni del numero uno della Bce, l’euro/ dollaro è letteralmente crollato perdendo in mezza giornata più di due figure contro il dollaro e passando dai 1,1320 dollari pre-conferenza stampa agli 1,11 dollari di fine giornata.

«L’euro si trova ora a contatto con uno dei supporti statici di medio periodo a 1,1020 dollari », spiega Antonio Landolfi, forex trader indipendente. In caso di rottura ribassista confermata, l’area di arrivo è 1,08 dollari che è anche l’ultimo livello supportivo prima del test dei minimi di 1,05 dollari ». Nonostante però le parole di Draghi, non è scontata l’immediata rottura ribassista del supporto sopracitato a 1,1020 dollari. Il corso del cambio di riferimento tra l’economia europea e quella americana potrebbe infatti fare ritorno anche in area 1,11 dollari dove ci sarebbe il ritest della trend line ascendente (rotta nell’ultima seduta dell’ottava) partita con i minimi di 1,05 dollari. Una tale configurazione grafica durante le prossime sedute, rafforzerebbe un’ipotesi di fase ribassista per il cambio.
Per puntare sulla coppia Eur-Usd utilizza il broker Etx , il principale intermediario inglese (ovviamente autorizzato) offre infatti il migliore spread a partire da 0,7 pips.

Focus Cina

Sempre in grande fermento la banca centrale cinese che dopo l’imponente decisione di svalutare lo yuan a fine agosto sta ancora cercando di riequilibrare le storture del proprio mercato a colpi d’interventi monetari e non. Questa volta il direttorio cinese ha deciso di varare una nuova serie di misure espansive, la sesta da novembre dell’anno scorso, intervenendo sul costo del denaro e sul livello minimo delle riserve al fine di rilanciare l’economia. Nel dettaglio, il tasso sui prestiti a un anno è stato portato a 4,35%, con un taglio di un quarto di punto. Identica limatura da 25 punti base sul tasso per i depositi a un anno, che passa da 1,75% a 1,5%. Il coefficiente sulle riserve che i singoli istituti di credito devono parcheggiare presso la banca centrale è stato invece ridotto di 50 punti base.

La banca centrale ha spiegato che quest’ultima mossa monetaria è per andare in contro alle pressioni al ribasso che incombono sulle prospettive per la crescita, parlando inoltre di un percorso di inflazione diverso da quello favorito dalle autorità. La Cina conferma ancora di essere il driver principale in grado di muovere i mercati.